ESTE. «La mafia è una montagna di merda». È con la celebre frase di Peppino Impastato, pronunciata ad alta voce da tutti i presenti, che si chiude l’intervento di Giovanni Paparcuri, che sabato mattina ha parlato di mafia e della sua vicenda personale alle classi quinte dell’IIS Euganeo e Fermi di Este. L’incontro, fortemente voluto da Simone Lissandrello, non vuole essere una lezione sulla legalità, perché «la legalità non si insegna, si trasmette attraverso gli esempi di persone come Falcone o Borsellino, per quello che hanno fatto quando erano in vita» esordisce Paparcuri. Non ha una particolare notorietà, non è mai stato insignito del giusto riconoscimento, eppure Giovanni Paparcuri è sopravvissuto alla strage Chinnici del 29 luglio 1983. Era l’autista dell’auto blindata. Da un anno è la guida del “Bunkerino”, il museo dedicato a Falcone e Borsellino.
Ai ragazzi racconta i giorni precedenti l’attentato: «Era nell’aria che stesse per accadere qualcosa, due giorni prima il consigliere Chinnici viene a sapere di essere il bersaglio e convoca me, il maresciallo Trapassi e l’avvocato Bartoletta. Abbiamo capito subito che c’era qualcosa che non andava, perché lui era sempre vestito in giacca e cravatta e quel giorno, invece, era in maniche di camicia. Prima ci disse di stare attenti ad auto di grossa cilindrata, e poi che se avessimo voluto trasferirci non ci avrebbe giudicato; ma noi ci siamo guardati, non abbiamo voluto fare i vigliacchi e abbiamo deciso di stare al suo fianco». Prosegue poi, con commozione, raccontando della mattina di quel 29 luglio che gli era subito apparsa strana: era una via molto stretta, eppure c’era spazio per parcheggiare tra due auto, una delle quali era la Fiat 126 imbottita di tritolo. Il segnale che Trapassi gli fa per il via libera diventa il segnale anche per il killer e di lì a poco ecco l’esplosione. «Non ho sentito niente, ho provato bellissime sensazioni, mi sentivo leggero, come sollevato, e con la mano volevo raggiungere la luce bianca pre-morte. Poi la luce è diventata rossa e poi nera e lì sono ritornato alla realtà: ero terrorizzato, ero gravemente ferito. Mi sono reso conto di tutto solo quando ero al Pronto Soccorso».
Dopo un anno e mezzo di convalescenza, Giovanni Paparcuri diventa “un grosso problema per lo Stato” in quanto sopravvissuto; viene abbandonato dallo stesso Stato per il quale ha rischiato la vita, addirittura è retrocesso a commesso giudiziario. Solo il giudice Paolo Borsellino riconosce il valore di Paparcuri e nell’aprile 1985, ben conoscendo la sua passione per l’informatica, gli conferisce l’incarico di digitalizzare il maxiprocesso di mafia.