Ore 7.23 di lunedì mattina, stazione di Este. Cuffie alle orecchie, facce assonnate, qualche saluto annoiato e tutta la malinconia di una grigia giornata di novembre. I pendolari atestini si preparano a raggiungere Padova, i più per seguire le lezioni all’università, qualcuno per raggiungere il posto di lavoro. Dalla foschia, incredibilmente puntuale, emerge la sagoma del treno. E non pare nemmeno essere il solito treno di ogni giorno, che se non ha visto le due guerre poco ci manca. Sembra, da lontano, avere una forma diversa, più elegante, slanciata, e un motore dal suono più dolce, che non arriva sbuffando e che non si ferma con uno stridio insopportabile di freni. I pendolari, increduli di fronte all’inatteso regalo, si fissano stupiti, e sui volti sbiaditi compare persino qualche sorriso. Sì, forse oggi la giornata comincerà bene. Forse per una volta faremo il viaggio comodamente seduti, senza dover pregare di giungere a destinazione tremando a ogni rumore inquietante che proviene da sotto di noi.
Che razza di illusi, i pendolari. Il treno, partito da Mantova, è sì nuovo, ma ha solamente due carrozze. Quando fa tappa a Este per raccogliere la quotidiana cinquantina (abbondante) di coraggiosi che devono raggiungere Padova entro le otto, è affollato come uno stadio alla finale del mondiale. I sorrisi si spengono all’istante, le inevitabili imprecazioni e blasfemie di vario genere eruttano dalle bocche come la lava di un vulcano in piena eruzione. Saliamo a stento, rischiando di travolgerci l’uno con l’altro. Alle nostre spalle, le porte si chiudono. Inizia un viaggio che si preannuncia tutto tranne che piacevole.
Qualcuno tenta di sfogare la rabbia scattando foto per documentare la vergognosa situazione. Altri, rassegnati, scuotono la testa e chiudono gli occhi, consapevoli che quando li riapriranno non sarà cambiato niente: sempre stipati saremo, perché non è un brutto sogno, ma la squallida realtà di un trasporto ferroviario sempre più simile a un girone infernale. Mi guardo intorno: schiacciato in un angolo, a poca distanza da me, c’è un ragazzo che cerca disperatamente di non essere sepolto dai compagni di sventura. Sorride quasi divertito, ma credo che se potesse sfascerebbe tutto. Nel punto dove mi trovo saremo una quindicina. QUINDICI. Nello spazio di qualche metro appena. Corpi ammassati ad altri corpi, come se fossimo carne da condurre al macello, come se non avessimo uno stralcio di dignità. Come se non avessimo pagato la bellezza di 53,80 euro di abbonamento mensile (26 e spiccioli per chi ha avuto la possibilità di acquistarlo ridotto). A occhio e senza esagerare, in questo momento le due minuscole carrozze del treno stanno ospitando almeno duecento persone. Da pendolare ne ho viste tante, ma di rado mi è capitato di trovarmi in circostanze simili.
Siamo sudati, nervosi e impossibilitati a muoverci. I trentatré minuti di tragitto sembrano non passare mai. L’aria, dopo un po’, comincia a farsi pesante. Si respira a fatica, ci si fa forza a vicenda e si pensa a quando saremo fuori da questo carro bestiame. Finalmente il nostro drammatico viaggio volge al termine. Il treno fa il suo ingresso in stazione a Padova, sospinto dal pensiero di duecento pendolari che non vedono l’ora di uscire dall’incubo. Ma c’è un’ultima sorpresa. La frenata è brusca e improvvisa. Diversi pendolari perdono l’equilibrio e rischiano di rovesciare a terra i vicini, in una sorta di effetto domino che di divertente non ha nulla. Io stesso rimango in piedi per miracolo, dopo essere quasi finito in braccio a una ragazza. Le porte si aprono. E’ incredibile, ma siamo liberi.
Respiriamo a pieni polmoni lo smog padovano come se fosse l’aria più pura del mondo. Un’ultima ingiuria di saluto a Trenitalia, poi ognuno si muove verso la propria aula, lasciandosi alle spalle un viaggio da dimenticare prima possibile. Non abbiamo particolari certezze, ma una sì: per come è iniziata, la giornata può solo che migliorare.
Davide Permunian