Rapporto genitori-figli nello sport, tra aspettative, successi, fallimenti, ansie e tensioni

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«Il problema delle giovanili sono i genitori».

Così tuonava il ct della Nazionale italiana di calcio, Cesare Prandelli, durante un convegno svoltosi a Cesena intitolato Dal settore giovanile al sogno azzurro”. Una dichiarazione quella rilasciata dal tecnico degli azzurri che sottolinea quanto la figura del genitore influenzi la crescita sportiva dei ragazzi e quanto questo fenomeno soprattutto negli ultimi decenni abbia assunto proporzioni e tematiche così rilevanti e dinamiche così importanti nello sport e nella crescita dei bambini impegnati nell’attività fisica-sportiva. Prandelli, come anche altri allenatori di piccole squadre, ritiene che il vero problema non siano i ragazzi, ma i loro genitori che a volte mettono troppa pressione ai figli, come se non dovessero sbagliare mai, mai perdere, mai deludere le loro aspettative ed essere sempre all’altezza, sempre i migliori.

Sono certamente molteplici le categorie nelle quali possiamo definire e classificare i diversi tipi di genitore che seguono il proprio figlio durante le varie gare sportive. Dal genitore che osserva in silenzio, applaude, incita al momento giusto e sorride dopo un errore del proprio figlio, sino al padre polemico, che litiga con il genitore «avversario» e giustifica la sconfitta del proprio figlio con la scorrettezza dell’altro ragazzo o l’incapacità dell’arbitro. La presa di coscienza è il primo passo di un percorso che ogni genitore dovrebbe voler compiere. La consapevolezza di poter e voler affrontare il problema deve essere una priorità del Coni e di ogni singola federazione sportiva.

Riguardo a questo fenomeno che sta crescendo e si sta diffondendo sempre più possiamo annoverare quello legato all’ex giocatore di calcio Alessandro Birindelli, che ha ritirato dal campo la sua squadra dopo una lite in tribuna tra genitori di piccoli calciatori. L’episodio accaduto non ha potuto che riportare alla luce l’annoso problema che lega indissolubilmente educazione e sport. L’educazione a cui si fa riferimento, però, non è ciò che viene insegnato al ragazzo, ma quella che dovrebbero ricevere i genitori di giovani campioni dello sport. Il rapporto tra genitori e figli deve trasformarsi da distruttivo, come troppo spesso accade, a costruttivo, ma in che modo? Quali le soluzioni? Alcune federazioni straniere hanno creato vere e proprie linee guida per il genitore, una per ogni disciplina, così da insegnare a padri e madri cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa va lasciato all’istinto e cosa deve essere forzatamente controllato.

In merito a questo “problema” sono intervenute diverse testimonianze da parte di gente che lo sport l’ha vissuto e l’ha praticato veramente sulla propria pelle e di chi semplicemente è appassionato di sport e ha fatto dello studio di questa pratica e di questo fenomeno e naturalmente di tutte le dinamiche e tematiche che lo compongono il proprio stile di vita e il proprio lavoro. Certamente tra le testimonianze più forti bisogna annotare quella di Bruno Conti, ex campione del mondo, ora talent scout della Roma. Conti, intervistato a caldo per sapere il suo parere su questo fenomeno sempre più in espansione disse: “Se potessi, chiuderei le tribune ai genitori. Sono loro il vero pericolo per i ragazzi”.

Gioco e stress, queste sembrano essere diventate le parole chiave e all’ordine del giorno per il modello che la società sportiva offre al giorno d’oggi. La linea di campo tra gioco e stress per il bambino è veramente sottile, tanto quanto quella tra il buon genitore che si limita a far capire l’importanza formativa della disciplina e dell’impegno e quello che invece invade, soffoca, s’arrabbia, giustifica, pretende senza voler sentire alcun tipo o sorta di scusa o giustificazione. Altra testimonianza importante fornita in merito alla questione è quella del pedagogo Emanuele Isidori, docente di etica e filosofia dello sport che dice: “L’influenza negativa della famiglia è il nocciolo del problema. Troppi genitori proiettano sui loro figli le proprie frustrazioni e aspettative, caricandoli di ansie deleterie”. Citando numeri e statistiche le ricerche ci dicono che tra gli 8 e i 12 anni la maggioranza dei bambini pratica sport per vincere, come principale motivazione. Il caso più eclatante e che di certo ha fatto storia in merito è stato quello di Andrè Agassi, ex tennista statunitense considerato da tutti una delle più grandi leggende di questo sport. Il suo best seller, Open, ha alzato un velo e un polverone mediatico specie per quanto riguardava le torture psicologiche subite dal padre. Ovviamente si parla di Agassi, atleta che nella sua carriera ha vinto tutto quello che c’era da vincere senza mai risparmiarsi e facendo dell’impegno e del sacrificio la base della sua carriera agonistica e professionistica. La strada verso la gloria e il successo è lunga, impervia e richiede sacrifici e delle volte pazienza e soprattutto impegno e volontà, pochissimi arrivano alla meta, al traguardo finale, molti mollano prima.

Isabella Gasperini, psicoterapeuta dell’età evolutiva e collaboratrice con diverse squadre di calcio sostiene: ”I genitori più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e hanno meno cose da fare nella vita. E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con l’aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister.. Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è inutile: sono meccanismi involontari”. Fondamentalmente ciò che la psicoterapeuta Gasperini ci vuole lasciare e trasmettere in eredità è il fatto che i bambini sono diversi dai loro genitori. I bambini sanno accettare l’errore e il fatto che un altro bambino sia più bravo come una cosa naturale mentre invece la maggior parte delle volte si vedono costretti a impegnarsi e andare oltre le proprie possibilità per realizzare i sogni del genitore. Andrebbero invece lasciati liberi di fare un sacco di cose ad esempio di sbagliare, di creare, di calciare come gli viene, di seguire il proprio istinto. Liberi anche di assumersi le proprie responsabilità e di cavarsela da soli.

Il calcio ovviamente resta lo sport per eccellenza, quello dove si tocca per certi versi l’apoteosi e dove la pressione che i genitori esercitano nei confronti dei propri figli risulta essere maggiore e più elevata, probabilmente il tutto si concentra e sta nel fatto che il miraggio di ricchezza e di opportunità di guadagno che il calcio offre al giorno d’oggi resta purtroppo irraggiungibile per qualsiasi altro sport, specie qua in Italia. Devis Mangia, ex ct dell’Under 21 di calcio a tal proposito dichiara: “Quando i genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è finita. Tutti pensano di avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa meno fatica etichettarlo come piantagrane e abbandonarlo al suo destino, mentre parlandoci si scoprono spesso situazioni familiari alle spalle che spiegano gli atteggiamenti deviati. Ma, al contrario di quanto si possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia.” Insomma il mondo del pallone secondo Mangia non sempre è il mondo fatato e l’oasi felice che sempre si vede in tv, ma la possibilità di ricchezza, successo, fama e prestigio che questa disciplina offre fa la differenza rispetto a qualsiasi altra attività sportiva, in particolar modo nell’ottica dei genitori.

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Cambiando rotta e sport può far riflettere anche la dichiarazione di Roberto Meneschinchieri, responsabile dell’attività agonistica Under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il circolo che ha visto nascere e crescere campioni del calibro di Pietrangeli, Panatta e Barazzutti. Meneschinchieri in merito alla questione genitori-figli nello sport dice: “è questione di istinto e di carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Con il dialogo si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va data troppa importanza alla partita e a evitare così interferenze o intemperanze durante il gioco”.

Anche nel basket comunque la situazione non sembra essere migliore. Giordalino Consolini, responsabile del settore giovanile della Virtus Bologna osserva: “Ci sono famiglie che combinano disastri. Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta “sindrome da campione “: il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il processo di crescita. Avviene una sorta di entrata in una realtà virtuale dove l’opzione dell’insuccesso non viene più considerata: se arriva una sconfitta la vive come un fattore imprevedibile, non trova una via d’uscita, resta disarmato perché è stato programmato solo per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi ascoltare, perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando la colpa a un altro: all’ambiente, al tecnico, ai compagni, agli arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori”.

Resta rilevante anche il fattore societario nella testa e nella crescita psico-fisica del bambino e del futuro atleta. Lo slogan principale che la società propone è quello di divertimento e gioco, ma in realtà il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente dal sistema è un altro. Conta la vittoria. Vincere è lo scopo e l’obiettivo, se non si raggiunge per forza e sempre questo traguardo sembra oramai essere andati in contro a una sorta di fallimento.

Gli esempi sopra riportati si riferiscono a categorie e livelli di gioco piuttosto alti, dove la sfera economica assume una componente e una rilevanza di un certo peso, ma di certo anche a livello locale la situazione non è di certo migliore anzi e per accorgersi di tutto ciò basta andare a seguire una qualsivoglia competizione giovanile di qualsiasi sport, gara o evento sportivo per rendersene conto.

Sbagli ed errori sembrano non essere più ammessi o condivisi nello sport odierno. Sbagliare invece è importante, imparare dai propri errori forma il carattere, ci insegna che non bisogna arrendersi mai, che si può fare meglio, che si farà meglio la prossima volta. Bisogna imparare a vivere i propri errori e un’eventuale sconfitta positivamente per migliorare e non farsi schiacciare dai problemi. Spesso, invece, i genitori tendono a spingere i figli sempre di più ottenendo così il risultato opposto a quello desiderato. Addirittura alcuni ragazzi arrivano ad abbandonare lo sport proprio a causa dell’ansia che non riescono a gestire da soli, sentendosi inadeguati o non all’altezza preferiscono arrendersi, sprecando così un’opportunità di crescita importante come lo sport, valore che senza alcuna ombra di dubbio forma i ragazzi insegnando loro non solo la disciplina e l’impegno, ma anche lo stare bene insieme. Proprio per questo non sono solo i ragazzi a doversi allenare, ma anche i genitori imparando ad aiutare i propri figli, seguendoli in questo percorso, supportandoli in ogni momento, insegnando che la sconfitta non è mai un fallimento. I genitori devono assumere consapevolezza e ripensare il proprio ruolo in questo ambito in modo che i figli possano vivere al meglio questa esperienza fondamentale della loro crescita e soprattutto della loro vita.

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Lo sport è una cosa o meglio un’esperienza di vita bellissima che non può e non deve essere negata a nessuno. Il fascino e la valenza che ha soprattutto nell’età giovanile e adolescenziale resta e deve restare una sorta di oggetto sacro e prezioso da custodire e da sfruttare; è un modo per imparare a stare al mondo e a rapportarci con i nostri coetanei e i genitori chiaramente è giusto che si interessino e supportino il proprio figlio e soprattutto è giusto e sottolineo bello che siano orgogliosi di lui, ma risulta altrettanto corretto e essenziale che si limitino a essere felici con lui e per lui nella vittoria così come nella sconfitta.

a cura di Matteo Maron

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