
San Siro di Bagnoli di Sopra, ore 10. Una tenue e fresca bruma aleggia sui campi scuri, questa mattina; la macchina d’aratro armata incide terra e mostra aguzzi denti; voci ridenti e liete riecheggiano dall’asilo. Novembre, la vita prosegue, costante. Eppure qualcosa di nuovo si muove.
I profughi nell’ex base militare di San Siro sono arrivati l’altro giorno. «Io continuerò con la mia vita, ma nell’alta padovana i profughi non arrivano» mi dice una signora che abita a 10 metri dall’ingresso della base. Base che scoppietta in queste ultime settimane, cantiere aperto, sempre in movimento. Il filo spinato, i militari, una “barriera visiva” vedo-non vedo che circonda gli alloggi per l’“accoglienza”.
Ore 10,15 circa. Piccoli gruppetti di persone vanno e vengono attraverso la stretta e lunga strada che porta alla base. Tutti salutano, mi stringono la mano, ma non vogliono essere fotografati. Sincronici alzano la mano per dare il buon giorno ad un anziano signore che passa in bici. Ed ecco che appare, in fondo alla strada, un torpedone bianco. Due minuti dopo valige, zaini, persone che scendono, s’abbracciano, ridono, gridano, scherzano e in massa si affrettano verso le nuove camerette. Ma l’entusiasmo durerà poco. Ce lo conferma Umokoro, nigeriano: «Non sappiamo cosa fare qui. Padova è una città grande; lì trovavamo sempre qualcosa da fare. Dove posso fare il biglietto per andare a Padova?»
Quella di questa mattina è la terza tranche di aspiranti rifugiati. 120 o 150; insomma, più di cento, sicuramente, sono i nuovi residenti. Ma di posto ancora ce n’è. Vengono da Mali, Tunisia, Senegal, Gambia, Guinea Bissau, Ghana, Nigeria. Io sono con un amico nigeriano, da aprile in Italia, ad Arzercavalli. Lui, che viene dalla “micro accoglienza” (nel suo appartamento sono in 8) mi dice: «Qui no va bene». Poi incontra i suoi connazionali, per dar loro qualche consiglio: «Se volete rimanere qui in Italia, studiate italiano, but stay good, siate buoni, abbiate pazienza, non mettetevi nei guai». Tutti ascoltano, spaesati; in sottofondo “Starting something”, di Micheal Jackson e Akon, giunge dalle piccole casse di un telefonino. Ho cercato l’“accoglienza” per tutta la mattina, ma non l’ho trovata.
Politica nazionale che decide e politica locale che subisce, i sindaci contano poco o nulla. Decide il prefetto. E le decisioni sono discutibili se si parla di opportunità. Trovo buffo parlare di accoglienza in un lager e ritengo in-opportuna la decisione del prefetto Impresa perché ha deciso per la via più facile e apparentemente meno dannosa, quando doveva, a parere mio (perciò opinabile), decidere per una proporzionata distribuzione. Se il governo opta per l’ “accoglienza” è coerente che tutto il territorio nazionale “accolga”. Non ritengo opportuno stabilire macchie d’olio indenni dal problema immigrazione e paesi che si ritrovano a dover subire da soli il fardello della storia. O tutti o nessuno.
In politica nazionale è dignitoso discutere democraticamente sul no o sul sì all’“accoglienza”. E’ vergognoso creare razzismo e xenofobia. E’ altresì vergognoso eludere la riflessione sul tema o continuare con l’ipocrisia di chi dice “accolgo” per fini meramente elettorali. La “sinistra” non è più “con i poveri e con i lavoratori” ma utilizza le parole-chiave di una volta per raccattare qualche voto di elettori confusi, oramai votanti per partito preso: come possiamo impiegare queste persone (per lo più giovani) se il nostro avaro mondo del lavoro è infetto da una così grande disoccupazione giovanile (oltre il 40%)?
Non è forse questa una mera mossa politica? “Noi siamo di sinistra: ergo noi accogliamo”. Voti. Strategia non troppo dissimile, moralmente parlando, dalle tattiche delle forze politiche di altro colore. Ma io parlo in concreto. Chi darà il lavoro e quindi la dignità a tutte queste persone? Chi riuscirà a sottrarre questa generazione alla fame e alla inevitabile criminalità? Si predica bene ma si razzola malissimo. Stiamo parlando della futura rispettabilità di migliaia di persone che fuggono da paesi ricchissimi di materie prime e possibilità di sviluppo, in preda a dittatori di turno e multinazionali (tra cui molte europee). Quando le commissioni sforneranno clandestini, chi si assumerà la bega di farli operare nelle proprie imprese?
In politica locale si deve essere exemplum civitatis, esempio di civiltà, uniti e civili. Questa è un’ottima occasione per dimostrare il nostro millenario bagaglio culturale. Il cittadino del vecchio continente, da sempre tratteggiato come “evoluto e perbene”, si dimostri tale. Gli amministratori locali, in attesa e speranza di una migliore predisposizione legislativa-burocratica dall’alto, organizzino assemblee pubbliche per sensibilizzare i cittadini e cerchino soluzioni con le cooperative per organizzare corsi di italiano ed educazione civica, e impiegare i migranti in lavori socialmente utili: utili alla comunità e utili alle persone che lavoreranno, non lasciate in balia dell’ignavia, il dolce e nocivo far niente.
Quando guardo i volti di Obinna, Musa, Moahamed, Dongoyaro, Bubaka mi chiedo: chi tra questi ce la farà? Chi riuscirà ad entrare nella “civiltà” e chi invece verrà risucchiato per legge naturale dalla malavita? La fame chiama. E le organizzazioni criminose non conoscono disoccupazione.