“Curare le persone nelle aree più problematiche e pericolose della Terra era l’unico modo che avevo per esprimere il mio dissenso verso le guerre. Sentivo che non potevo più vedere senza fare niente”. Inizia così l’intervento di Luisa Mancini, medico chirurgo e operatrice umanitaria di Medici Senza Frontiere, giovedì 21 marzo presso la Sala Consiliare del Comune di Este. Nel corso dell’evento è stato presentato il libro “Noi non restiamo a guardare”, una significativa raccolta di lettere e testimonianze curata da MSF ed edita da Feltrinelli. “Ho visto cose che non sarò mai capace di dimenticare. Un giorno mi trovavo tra Pakistan e Afghanistan e arrivò in ospedale un ragazzo con il braccio gravemente ferito da un bombardamento, accompagnato dal fratello più grande. Purtroppo non c’era niente da fare, era necessario procedere all’amputazione. Quando lo comunicai al fratello, sul suo volto apparve un’espressione di dolore così profondo che rischiai di scoppiare in lacrime lì, davanti a loro”. Luisa ha un viso scarno e un corpo esile. A guardarla sembra debole, fragile, insignificante. Invece dentro di sé ha una forza e un coraggio straordinari. Anche lei, come molti altri Medici Senza Frontiere raccontano nelle loro testimonianze, afferma di aver ricevuto molto più di quanto ha dato.
“In alcuni Paesi islamici dove sono stata”, continua, “alle donne non è riconosciuto alcun diritto. Per uscire devono essere sempre accompagnate da un maschio della famiglia, possono essere visitate da medici uomini solo indossando il burqa, se devono sottoporsi a un’operazione chirurgica hanno bisogno del permesso del padre o del marito. Rappresentano veri e propri animali da riproduzione: sono costrette a sposarsi giovanissime (anche a 12 anni, ndr), di conseguenza hanno gravidanze a rischio, con continue perdite di urina, vengono ripudiate, cacciate di casa e abbandonate al loro destino. In queste zone la popolazione femminile non può nemmeno essere liberamente fotografata”. Per non parlare degli stupri di massa, che costituiscono vere e proprie armi di guerra impiegate sia dagli eserciti regolari che dalle forze ribelli. Ma, nonostante tutto, ci sono donne che trovano il modo di sopravvivere, anche in condizioni così difficili. “Ricordo il caso di una ragazza di 13 anni, arrivata da noi con il proprio neonato in braccio al termine di un viaggio estenuante, dopo essere stata mandata via dal marito. E poi alcune donne nel nostro ospedale, che sfidarono le regole e si fecero fotografare a volto scoperto”. Le altre grandi vittime della guerra sono i bambini. “Loro riescono ad affrontare il dolore meglio degli adulti. Una volta un piccolo ferito realizzò un disegno della propria terra. La raffigurò piena di bombe, esplosioni, aerei, navi da combattimento. Ma guardando meglio mi accorsi che aveva delineato anche un sole, simbolo di speranza. E’ merito di quel sole se non mi sono lasciata prendere dallo sconforto e sono stata in grado di andare avanti anche nei momenti più duri”.
MSF non opera solo nei territori in cui è in corso un conflitto armato. Lavora anche in Italia, per cercare di aiutare gli immigrati che approdano nel nostro Paese dopo essere fuggiti da situazioni di miseria, violenza o persecuzione. E a farne parte non sono esclusivamente medici, ma anche persone comuni che organizzano campagne di sensibilizzazione e raccolte fondi, oppure si occupano degli aspetti logistici. Mentre vengono proiettate le immagini della storie che ha vissuto e delle persone che ha incontrato e curato, la chirurga si rivolge ai giovani. “Da madre dico che per vivere bene due cose sono essenziali: rispettare la dignità umana e aprirsi senza paura agli altri. Quello che noi Medici Senza Frontiere proviamo a fare è mettere a disposizione di chi ne ha bisogno cure efficaci e gratuite. Ma anche voi non potete permettervi di stare a guardare”. Luisa non ha nessuna intenzione di fermarsi. Infatti domenica scorsa è partita ancora, per un’altra missione. Eroina instancabile e silenziosa in un mondo che per dimenticare le proprie tragedie continua a rifugiarsi nel rumore e nell’indifferenza.
Davide Permunian