Samuel Beckett e il teatro dell’assurdo: Aspettando Godot

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“Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano? Sto forse dormendo in questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di questa giornata?

Che col mio amico Estragon, in questo luogo, fino al cader della notte, ho aspettato Godot? Che Pozzo è passato col suo facchino e che ci ha parlato?

Certamente. Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero?

(Estragon, dopo essersi invano accanito sulle proprie scarpe, si è di nuovo assopito. Vladimir lo guarda).

Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota.

(Pausa) A cavallo tra una tomba e una difficile nascita. Dal fondo della fossa, il becchino maneggia con cura i suoi ferri. Abbiamo il tempo d’invecchiare. L’aria risuona delle nostre strida. (Sta in ascolto)

Ma l’abitudine è una grande sordina. (Guarda Estragon) Anche per me c’è un altro che mi sta a guardare, pensando “Dorme, non sa niente, lasciamolo dormire”. (Pausa).

Non posso più andare avanti. (Pausa).Che cosa ho detto?”

Vladimir, “Aspettando Godot”, Atto II

Samuel Beckett

Due uomini, Vladimir ed Estragon, accampati sotto un albero aspettano la venuta del loro signore, Godot, e nel frattempo parlano di ogni cosa: di chi sono, cosa fanno, si lamentano del freddo, della fame e della loro miseria; meditano persino il suicidio, ma desistono, convinti che l’arrivo di Godot porrà fine ad ogni loro sofferenza.

Vengono occasionalmente interrotti da Pozzo, un ricco proprietario terriero e da Lucky, suo silenzioso servo, che Pozzo tiene sempre legato ad una corda, simbolo della reciproca simbiosi che lega i due.

Questa è la base dell’opera di Beckett, considerata uno degli emblemi del teatro dell’assurdo, e che gli valse il Nobel per la letteratura nel 1969.

Per chi non lo sapesse con teatro dell’assurdo si intende quella tipologia di teatro che prese piede nel periodo antecedente la II Guerra Mondiale e che aveva come obiettivo dimostrare l’inconoscibilità della verità e il non-senso della vita (noto esponente italiano fu Luigi Pirandello).

La tragicommedia venne pubblicata nel 1952 in francese, e dopo appena un paio d’anni tradotta in inglese dallo stesso autore. Tuttavia il suo successo non fu immediato, infatti l’opera venne liquidata dai più come semplicistica o insensata. Ma è proprio tramite i suoi numerosi non-sensi che il lettore attento coglie la genialità di Beckett!

Un pratico esempio: nella visione dell’autore nulla appare certo e determinato, quindi i suoi personaggi vengono posizionati in una sperduta strada di campagna, senza la minima idea di come ci siano arrivati o di dove questa porti; l’unico punto di riferimento spaziale è il grosso albero, per il quale tuttavia il tempo scorre diversamente rispetto ai due protagonisti: se per questi nell’opera passano appena due giorni, l’albero, col suo ciclo di vita, ci fa intendere invece che stiano passando gli anni.

Un altro tema interessante del componimento è l’attesa, incarnato dal fine stesso dei personaggi, e dall’enigmatica figura di Godot, che mai, in tutto il corso dell’opera fa la sua comparsa. Vladimir ed Estragon non hanno mai visto Godot, non sanno nemmeno esattamente chi sia, ma lo aspettano (senza un preciso perché) convinti che li ripagherà della pazienza salvandoli dal misero stato in cui si trovano. Fuor di metafora l’attesa dei due rappresenta l’attesa di tutto il genere umano di un miglioramento della propria condizione, che venga dato da una fonte estera, anziché con l’impegno e la dedizione personali.

A lungo si è speculato sull’identità di Godot: l’ipotesi più accreditata sostiene che sia l’incarnazione di Dio (God-ot ) oltre che per l’evidente richiamo fonetico anche per la futile attesa del genere umano, incarnato dai due sfortunati viandanti, e per la descrizione di un giovane emissario mandato ai due (un vecchio con una folta barba bianca). Se questa ipotesi fosse corretta, si pone un dubbio essenziale: “e se Godot non arrivasse mai che cosa ne sarà di noi?”

Questa domanda emerge verso la fine dell’opera e resta tragicamente senza risposta, confermando, di fatto, la vana esistenza del genere umano, che si trova a galleggiare nelle profondità del vuoto cosmico, senza nessun motivo.

Persino negli scambi finali tra i due protagonisti possiamo cogliere la profonda ironia e amarezza di Beckett, infatti, quando Vladimir chiede:“ Dovremmo andarcene?”, Estragon risponde “Andiamo!”, ma l’indicazione scenica recita: “non si muovono”; ad indicare che nonostante la volontà di mettere in atto un cambiamento, nessuno ne è davvero capace.

Andrea Pettenuzzo