
Si chiama generazione NEET (acronimo di “Not engaged in Education, Employment and Training”) quella parte ahimè consistente di gioventù (tra i 15 e i 29 anni) che non è né occupata né iscritta a corsi di istruzione o di formazione (in Italia vengono indicati come néné, in Spagna come nini). Figli dell’eterna crisi economica e spirituale di questi ultimi 7 anni, i NEET in Italia, secondo i dati forniti dall’Ue, sono il 22% dei giovani, percentuale che ci colloca sul gradino più alto del podio in tutta l’Europa. Dopo di noi Irlanda, Bulgaria, Grecia e Spagna.
A pesare sulla percentuale dei giovani che non lavorano e non studiano sarebbe in particolare la nostrana disoccupazione giovanile, che nel 2014 ha superato il 47%. Dal quadro delineato dagli analisti che hanno inserito il nostro Paese nella zona rossa della “Very high rate” (paesi che superano il 17% di NEET tra i giovani), e dalla comunicazione della Commissione europea “sull’attuazione di un quadro rinnovato di cooperazione europea in materia di gioventù per il 2015”, si coglie la gravità di questi dati.
«Inattività, povertà ed esclusione non colpiscono uniformemente. Quanti iniziano la vita con minori opportunità tendono ad accumulare svantaggi. I giovani provenienti da un contesto migratorio, con un basso livello di istruzione o con problemi di salute hanno più probabilità di diventare NEET». Inoltre «si sta ampliando il divario tra i giovani che studiano, sono fiduciosi di trovare un lavoro e di impegnarsi nella vita sociale, civile e culturale da un lato, e dall’altro quelli con poche speranze di condurre una vita appagante e a rischio di esclusione e marginalizzazione. Queste divisioni minacciano di compromettere il tessuto sociale e una crescita economica sostenibile a lungo termine».
Infatti, i 13,7 milioni di NEET in Europa, assieme ai 27 milioni di giovani “a rischio povertà o di esclusione sociale”, «trovano difficile esprimere il loro pensiero politico, hanno minore fiducia nelle istituzioni pubbliche e partecipano meno alle attività sociali e civili. Meno istruiti o meno coinvolti in attività sociali sono, meno prendono parte al voto, al volontariato o alle attività culturali». Una vera e propria disfatta generazionale che rischia di radicalizzarsi con esiti tragici (dall’ingrossamento delle frange estremiste della politica ad episodi di terrorismo) e meno tragici ma preoccupanti (l’automatismo involutivo al quale si riduce l’uomo di fronte alla tecnologia dei social network e del web utilizzata come svago-distrazione e la morte del dibattito pubblico, linfa vitale per gli ordinamenti democratici).
«La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e di sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliorare il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia». Con questa incisiva affermazione Ludwig Feuerbach, filosofo ottocentesco, certamente non ambiva ad una banale riduzione dell’anima ai piaceri della tavola. Egli esprimeva invece un’acuta coscienza dell’unità psicofisica dell’individuo: se si vogliono migliorare le condizioni spirituali di un “popolo”, si devono prima di tutto migliorare le sue condizioni materiali.
Che fare? Sicuramente i rispettabili e valenti tecnocrati italiani ed europei dovranno dedicare più tempo e forze intellettuali-economiche al problema delle politiche giovanili, in primis all’occupazione. E questo per scongiurare la bomba sociale innescata, non ancora esplosa, dal felice matrimonio tra disoccupazione giovanile e nuovi flussi migratori. «Non rimandare a domani quel che puoi fare oggi per il prossimo bisognoso» non è più solo un noto proverbio biblico; oggi, infatti, diviene un imperativo categorico: non rimandare a domani quel che DEVI fare oggi per il prossimo bisognoso.