Le parole sono finestre (o muri)

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 muro finestra

Ci sono cose che ho bisogno di dire, cose che per me significano tanto, se le mie parole non servono a chiarirle, mi aiuterai a liberarmi?

(R. Bebermeyer)

«Parole, parole, parole…soltanto parole, parole fra noi»: così cantava Adriano Celentano in una sua canzone. Ma così come lui, sono tantissimi coloro che hanno fatto delle parole la loro più grande miniera di fama, successo, tattiche di seduzione e d’approccio: filosofi, poeti, commediografi, cantanti, scrittori… Che cosa rappresentavano le parole per un Cicerone, il principe del Foro? Che cosa per un Dante Alighieri? Che cosa per un Francesco Petrarca? Che cosa per un Giovanni Boccaccio? Che cosa per un Giacomo Leopardi? Per restare in campo italiano, ma la lista internazionale, sarebbe interminabile. In molti hanno fatto della parola il loro cavallo di battaglia, chi per combattere una guerra silenziosa e rivoluzionaria, chi per trasmettere un male inossidabile e inguaribile, chi per svelare il proprio potentissimo amore, ma non corrisposto, chi per rivelare la propria verità più recondita, chi per puro piacere di far vedere il mondo attraverso i propri occhi, innovativi ed estranei.

Ma cos’è la parola se non un elemento linguistico costituito da un morfema libero o da una sequenza di morfemi legati? In parole povere, un suono o un insieme di suoni. Ma allora, come può un così piccolo ed indifeso elemento della sintassi italiana, essere così potente? Persuasivo? Aggressivo? Dominante? Costrittivo? Distruttivo?

La parola è l’arma più potente di cui ognuno di noi è fornito. Siamo tutti muniti di quest’arma, sempre carica, e senza sicura, sempre pronta a sparare. Un’arma che può ferire, mortalmente o solo superficialmente, ma se usata nel modo più adeguato, potrebbe aiutare, lenire i dolori, scalfire i dubbi e le insicurezze. Un’arma che non verrebbe mai puntata al cuore dell’altro.

E così, le parole possono essere finestre (o muri). Le parole possono rappresentare un ponte indistruttibile tra le persone, una finestra aperta alle sei di una mattina di fine maggio, che lascia entrare nella stanza chiusa e buia delle ore notturne, l’aria frizzante e fresca, il cinguettio degli uccelli appena svegliatisi, i primi timidi raggi di sole che si sono appena liberati dal meraviglioso rituale dell’alba, e il profumo della natura primaverile, ancora bagnata dalla rugiada. Ma le parole possono essere anche dolorose, possono far provare il dolore di sbattere contro un muro, invalicabile, insuperabile. Parlare è una cosa naturale, quasi un bisogno fisiologico come mangiare e dormire. Ma ascoltare? Anche quest’ultima azione può essere inserita tra i bisogni primari di un essere umano? Non esattamente, ed è proprio questo uno dei principali fattori dei disagi di molte persone, in particolare in questo difficile periodo.

Chi parla, si aspetterebbe di essere ascoltato, capito, compreso, sostenuto. Nelle parole non c’è mai alcuna richiesta d’aiuto esplicita. Ma non é detto che essa sia neppure implicita. Perché si ritiene inconcepibile il fatto che una persona parli per il semplice bisogno di sfogarsi e di rendere visibile il suo mondo interiore? Chi ascolta, invece, troppe volte si sente in dovere di fare il “supereroe” della situazione, cerca di risolvere i quesiti dell’altro attraverso la sua esperienza, la commiserazione, l’offerta di un aiuto o di un parere non richiesto. A questa “presunzione” si aggiungono i cosiddetti “limiti” dell’ascolto, impersonati dai pregiudizi, dai presupposti, dalle precondizioni (un “pre” che nel caso dell’ascolto vero, quello puro, non dovrebbe mai essere mezzo in campo).

Di questo e di molto altro si vuole parlare nella neonata iniziativa del comune di Monselice, “Listen’App“, tenuta dalla psicologa Chiara Zambon: un gruppo di giovani, dai 20 ai 30 anni, che vogliono imparare ad ascoltare. Facile a dirsi, ma a farsi? Sono pronti a spogliarsi delle loro timidezze e dei loro pregiudizi per ascoltare l’altro. Perché come si può ascoltare se si è bloccati nel proprio individualismo? Dovranno imparare ad abbattete molti muri, e laddove non riuscissero ad abbatterli, dovranno farsi manovali, e costruire molte finestre, con grandi e colorati battenti. Questo è il progetto, questo è ciò che si vuole imparare. E voi? Siete pronti a mettervi in gioco e ad ascoltare senza pretese e senza condizioni?

Per il momento vi lascio con un piccola pillola di saggezza: la prossima volta che verrete investiti da un fiume di parole, proveniente dalle labbra di chicchessia, non preparatevi un discorso di risposta, non una lunga serie di consigli e non pronunciate le tremende parole “ti capisco, passerà“. Chi siete voi per poter dire di capire? O ancora peggio, non incorrete nell’errore di squalificare la conversazione, banalizzando le parole che l’altro ha deciso di condividere con voi. Come potete non rispettare i valori e le credenze del vostro interlocutore? Semplicemente, limitatevi a dire “Mi stai forse dicendo che…?” e fate capire al vostro interlocutore che lo avete veramente ascoltato, che avete compreso ciò che lui ha voluto dirvi, che non avete reinterpretato ciò che lui ha cercato di trasmettervi. E capirete che, avrete appena ascoltato chi vi sta accanto, magari per la prima volta.

Erica Randi

1 commento

  1. Tu le parole le sai usare davvero bene, questo articolo è una finestra spalancata su uno splendido dipinto tratteggiato con maestria; complimenti, ottima penna.

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