
Durante quest’ultima settimana la cronaca ha tragicamente mostrato ai cosiddetti Europei che l’Isis esiste. Prima degli attentati di Parigi, molti pensavano fosse solo una leggenda mediatica, probabilmente presente nel lontano (ma non troppo) Medio Oriente (la Siria e l’Iraq, culla delle civiltà mesopotamiche e ora anche dell’Isis, sono a due passi dalla Turchia, dalla Grecia e quindi dall’Italia). Il 13 novembre 2015 la storia del sedicente Stato islamico si è materialmente e brutalmente intersecata con la storia dell’Europa. Con la storia di numerosi uomini, vittime innocenti dell’estremismo islamico.
Elif Dogan, Christoper Lellouche, Marie Lausch, Guillaume Decherf, Claire Camax, Thomas Ayad, Asta Diakite, Mathieu Hoche, Nick Alexander, Valeria Solesin, sono solo 10 dei 129 agnelli sacrificati sull’altare della storia. Una storia che risale al 2003 e per la quale anche gli Stati dei quali questi uomini e queste donne erano fieri cittadini possono definirsi responsabili. Anche i Paesi “occidentali”, che da sempre hanno giocato prima a Monopoli e poi a Pilato con il Medio Oriente, sono responsabili per la truce morte di Elif, Cristopher, Marie, Guillaume, Claire, Thomas, Asta, Mathieu, Nick, Valeria e tutti gli altri. Infatti la “clorofilla del terrorismo”, il caos figlio dell’Occidente, poteva e doveva essere emendata e sorvegliata congiuntamente e continuamente.
E’ alla metà dell’aprile 2003 che si situa l’inizio della storia dell’Isis. L’Iraq è da poco stato invaso dagli Stati Uniti. I sunniti (la più ortodossa maggioranza dei musulmani nel mondo, ma solo il 35% della popolazione in Iraq), da sempre favoriti dal regime di Saddam Hussein, vengono messi in disparte. Gli sciiti (da “shi’at ‘Ali”, il partito di Ali, “sostenitori dei diritti di Ali alla successione di Maometto”, la maggioranza della popolazione in Iraq e soprattutto in Iran) vanno al potere. I generali statunitensi trattano e firmano un accordo con i capi tribù sunniti di Al-Anbar (regione occidentale dell’Iraq): no war, no invasion, se le tribù sunnite rinunciano al combattimento non vi sarà conquista delle loro regioni.
Sarà proprio in queste regioni confinanti con la Siria che si concentreranno armi, ex dirigenti del partito di Saddam (il Ba’th) e il malessere generale dei sunniti, sempre più esclusi dal processo di appeasement (‘pacificazione’) del Paese; malessere che si sarebbe presto radicalizzato e infiltrato anche in Siria, dove, nel 2011, scoppiano le rivolte contro il regime di Bashar-al-Assad. Quest’ultimo, addirittura, avrebbe inizialmente sfruttato l’insorgenza del morbo dell’estremismo wahhabita. Mostrandosi come il male minore, rispetto all’Isis, Assad avrebbe potuto mantenere il trono siriano. Ma anche il Frankenstein di Bashar è sfuggito al controllo.
Nel 2003 Abu Musab al-Zarqawi, “l’estraneo”, perché giordano, comincia la sua jihad in Iraq. Si combatte contro i “kafiri”, gli infedeli sunniti, sciiti e, naturalmente, americani. “La mano dei mujahidin non fa eccezioni”. Il suo gruppo armato si chiama “Tawhid Al-Jihad”, “Al-Qaeda nella terra di Mesopotamia (o in Iraq)” dall’ottobre del 2004. Sono numerosi i combattenti che arrivano dalle filiere costituite a Milano, Madrid, Parigi e in altre capitali dell’Europa. Il 7 giugno 2006 al-Zarqawi viene ucciso da un raid americano. E’ Abu Ayyub al- Masri, il nuovo leader di Aqi, ad annunciare la creazione dello Stato islamico in Iraq (Isi) nell’ottobre del 2006 e ad incoronare Abu Omar al-Baghdadi.
Non è questo un periodo roseo per lo Stato islamico: le forze statunitensi, con l’appoggio delle tribù sunnite contrarie all’estremismo islamico, colpiscono duramente i jihadisti, riuscendo, in un’operazione coordinata, a eliminare al-Masri e al Baghdadi. Sarà Ibrahim al-Badri, meglio conosciuto come il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, a cambiare le sorti della guerra santa. Il 4 marzo 2013 quarantotto soldati siriani, braccati da Jabhat al Nusra, gruppo attivo in Siria, si rifugiano in Iraq e vengono accolti dall’esercito iracheno. Scortato da quest’ultimo il convoglio cade in un’imboscata tesa dai jihadisti iracheni nei pressi di Waleed, poco distante dalla cittadina di confine Qaiim. E’ la prova evidente che i sunniti estremisti stanno cominciando a cooperare tra Siria e Iraq come una forza militare unita: i confini ufficiali non contano più.
Dal 2014 il gruppo di jihadisti, che nell’aprile 2013 ha cambiato di nuovo denominazione in “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (con acronimi Isis o Daesh) e nel giugno dell’anno seguente si è proclamato “Califfato” o “Stato islamico”, ha conquistato molte prime pagine: le decapitazioni degli ostaggi sulla collina di Raqqa, le conquiste degli uomini con le bandiere nere delle città siriane e irachene, il rogo, all’interno della gabbia, del pilota giordano Moath al-Kasasbeh, la decollazione di ventuno egiziani copti su una spiaggia libica, la distruzione dei musei a Mosul e dei monumenti a Nimrud e Palmira, l’alleanza con Boko haram e i jihadisti del nord africa, gli attentati alla moschea di Sana’a in Yemen, alla moschea sciita nella città di Qatif, al resort a Sousse in Tunisia e a Parigi.
Per fare un albero ci vuole il seme. Per fare la jihad ci vuole il cash. Secondo gli analisti sarebbero molteplici le fonti dello Stato islamico. Innanzitutto i mujahidin si sono appropriati di molti mezzi militari made in USA dell’esercito iracheno, il quale si è dimostrato una vera e propria “tigre di carta” colpita dal morbo universale della corruzione (i soldati pagano i comandanti per restarsene a casa). Con la presa di punti strategici come i ponti l’Is guadagna lauti pedaggi (strategia frequentemente utilizzata anche in Libia). Inoltre il Califfato vanta un fruttuoso traffico di schiave (soprattutto yazide), di opere d’arte (stimato in 36 milioni di dollari l’anno), di ostaggi (30-45 milioni di dollari l’anno) e di droga. Ancora, 40 milioni di dollari l’anno di donazioni internazionali (soprattutto dai Paesi del Golfo), 100 milioni di dollari l’anno attraverso tasse (ad esempio la religiosa “zakat”) ed estorsioni su cittadini locali e stranieri. Infine, mezzo miliardo di dollari incassato con la rapina della Banca Centrale di Mosul, nel giugno del 2014.
Ma la vera fonte di ricchezza dell’Is sono le risorse naturali. L’oro nero, nero come le bandiere che vengono issate nelle jeep giapponesi e negli edifici delle città conquistate, arriva soprattutto da Deir el-zor, tra la Siria e l’Iraq (30-40.000 barili al giorno), e Qayyara, vicino a Mosul (circa 8.000 barili al giorno): contrabbandato in Turchia o venduto allo stesso regime di Assad e alle formazioni ribelli siriane, l’intelligence americana valuta gli introiti fra 500 milioni e un miliardo di dollari l’anno. Il gas, attraverso la presa di almeno otto centrali, scambiato con il regime di Assad, le miniere di fosfati e le fabbriche di cemento, addirittura il grano (la FAO stima che “l’Is operi in un’area dell’Iraq equivalente al 40% della terra coltivata a grano in Iraq”) e il cotone.
Nonostante il duro contraccolpo subito nel mercato del petrolio (difficoltà tecniche, crollo del prezzo del greggio, raid mirati sugli impianti) siamo innanzi ad una struttura che agisce come un entità statale a tutti gli effetti, in grado di adeguarsi stabilendo rapporti di interesse con il nemico, un’organizzazione sicuramente più ricca e autonoma rispetto all’Al-Qaeda di Bin Laden: lo stato terrorista.